L’arte della parola

L’arte della parola

L’arte, secondo la definizione di Joyce, è disporre degli oggetti per finalità estetiche. Oggetti, sì, trattandosi di arti figurative, quali la pittura, il disegno, la scultura, l’architettura. La per ciò che concerne la “parola”? Parola, Logos per i Greci, Vak per il pensiero induista corno forza creatrice. Ma non in senso metafisico religioso, come solitamente s’intende, bensì come. atto umano.
Scrivendo queste riflessioni, mi è venuto di pensare a quanto afferma D’Annunzio, secondo il quale un. ordine di parole vince in efficacia una formula chimica. Ma che cos’è la parola in poesia se non qualcosa che ha un potere evocativo, lo strumento, dunque, di cui si serve il poeta per ricreare sensazioni o sentimenti, o evocare paesaggi e ambienti?
Di certo la parola in sé nulla vale, se manca il supporto dell’arte, vale a dire quella “téchne” senza la quale si vanifica qualsivoglia sensibilità poetica.
È opportuno ricordare quanto ha enunciato E. A. Poe in “La filosofia della composizione”, un breve scritto ove analizza le varie fasi della stesura del suo poema, Il Corvo: “Quella che noi definiamo una poesia lunga è, in realtà, una successione di poesie brevi: vale a dire di brevi effetti poetici. È superfluo dimostrare che una poesia può definirsi tale solo in quanto essa è fonte di una intensa eccitazione, e di elevazione, dello spirito; e tutte le eccitazioni intense sono, per necessità psichica, brevi.”

Ci troviamo assolutamente d’accordo col pensiero del poeta statunitense; ma occorre ribadire, e rammentare sempre, che non basta il sentimento, o le buone intenzioni, a rendere tale un’opera poetica, venendo meno o mancando affatto il fondamento della tecnica.
Che cos’è, dunque, la poesia?
In termini aristotelici essa altro non è che il sinolo, cioè la sintesi tra materia o contenuto (idea, sentimento) e forma (metrica, ritmo, verso). Quanto più l’una e l’altra avranno validità tanto più una composizione assurgerà a dignità artistica. Né è ammissibile che un’opera poetica, se veramente voglia essere tale, possa prescindere dalla validità dei contenuti o da una forma che non risponda ai canoni estetici.
Contenuto e forma, quindi, sono il binomio indispensabile.
In quanto alla materia, ovvero i soggetti e gli argomenti, ciò dipende dalla sensibilità e dal grado di cultura di chi scrive, e non vi sono regole, anche se il buon senso potrebbe suggerirci di evitare tutte quelle tematiche che rientrano nella sfera del kitsch, tanto care ai cosiddetti poeti del sottobosco. Pertanto, libertà di scelta, sia pure entro i limiti del buon gusto e del discernimento.
Per quel che riguarda la forma, si rendono necessarie alcune riflessioni, muovendo da quelli che il Poe definisce “brevi effetti poetici”.
Occorre distinguere, innanzitutto, due diversi stili poetici: lo stile piano, narrativo, discorsivo, e lo stile lirico, basato sul giuoco delle allitterazioni, dei traslati e di tutto quanto serve per raggiungere un alto grado di liricità.
Un chiaro esempio del primo lo si ritrova in “La signorina Felicita” di Gozzano, dove l’andamento procede, sia pure nella perfezione metrica, e nella dignità compositiva senza slanci di lirismo, pacatamente. Casi dello stesso genere possiamo trovare in tanti autori; il Moretti, per citare qualche esempio, o, se vogliamo spingerci oltre Oceano, l’autore di Spoon River Anthology. Lo stile lirico, all’opposto, è quando la parola si fa musica e il verso evoca particolari suggestioni, come nella seguente terzina dantesca.

Quale ne’ plenilunii sereni
Trivía ride tra le ninfe eterne
che dipingon lo ciel per tutti i seni…

(Par. XXIII, 25 – -27)

Dove la bellezza classica dell’immagine è adornata e. impreziosita dalla musicalità. Ed. ecco il “breve effetto poetico” cui accenna E. A. Poe.
A proposito del quale occorre tenere presente che la poesia, almeno per quanto concerne il dato lirico ed evocativo (a livello di immagini o impressioni), non può fare à meno della laconicità, in tendendo con ciò un linguaggio scevro da lungaggini, ridondanze, aggettivazioni sovrabbondanti e inutili, l’uso delle quali nuoce alla resa di una composizione. Molti versi cattivi nascono proprio perché. manca il senso critico a far da supporto. Non basta l’ispirazione, per fare della buona poesia; è necessario un attento e vigile studio sulla parola, una continua riflessione, un senso critico, e autocritico, ben. sviluppato.
A sostegno di ciò, addurrò qualche esempio, leggendo alcuni versi trovati nel corso delle mie letture, che mi hanno colpito per la loro particolare inefficacia. Eccone uno:

fino a quando gli occhi non lacrimano.

Banale, insignificante nella sua prosasticità, esso avrebbe avuto valenza poetica qualora fosse stato composto, pur mantenendo le stesse parole, in tale ordine:

fino a quando non lacrimano gli occhi.

Come si può vedere chiaramente, posponendo il sostantivo al verbo l’insieme dei vocaboli acquista la dignità di un endecasillabo. Infatti, nella successiva disposizione, l’accento ritmico cade sulla penultima sillaba, la decima, secondo quanto prescrivono i dettami della metrica.

E ancora:

Non attingo
acqua fresca alla fonte
se non ci sei.

Qui troviamo addirittura due tópoi lapalissiani: un sostantivo e un aggettivo, ingombranti e del tutto superflui. E’ evidente che a una fonte non si possa attingere altro che acqua; è ovvio, e scontato, che una fonte non è mica un geyser, una sorgente termominerale; altrettanto logico è il fatto che l’acqua di una fonte non possa non essere fresca.
Anche quell’avverbio finale contribuisce non poco a distruggere l’armonia e la musicalità di ciò che avrebbe potuto essere un bel verso.

Ecco, rileggiamolo in. altro modo e con le opportune modifiche:

Non attingo alla fonte
se non sei.

Tolto il ciarpume, buttata la zavorra, abbiamo un. verso dignitoso, meritevole d’essere scritto.

Le impressioni e le sensazioni, tanto necessarie all’effetto estetico, nascono anche dal silenzio della parola, che è quel pudico tacere, quel non dire troppo, quell’alcunché d’indeterminato che lascia spazio e libertà d’accesso a qualsivoglia suggestione. E quindi la sobrietà, la concinnità, quella “concinnitas” che dà decoro alla scrittura.

Accade anche che sia inevitabile, qualche volta, sacrificare, sopprimere tutta una poesia, per lasciarne soltanto pochi versi pregni di significato. E’ proprio quanto avvenne a Quasimodo, il quale, di una composizione più lunga ha salvato l’ultima parte:

Ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di sole.
Ed è subito sera.

L’essenziale era stato detto: non occorreva altro. Rammento una mia esperienza. Avevo composta una poesia, una di quelle che appartengono al genere nipponico dell’haiku, e confesso che o ne ero soddisfatto. Mi piaceva, sì, anche per una certa resa musicale, grazie a una sorta di eufonia dovuta alle assonanze. lo haiku. era il seguente:

Spensierato
slancia la lenza in acqua il pescatore.
Spasimo guizzante d’agonia

Mi piaceva, ripeto, proprio per la presenza di quei fonemi (en, an, on) che rendevano una certa musicalità e per l’espandersi del verso centrale nell’ampiezza dell’endecasillabo.

Rileggendolo dopo un bel po’, e questa volta con occhio critico, mi sono avveduto di alcune cose che non andavano. Innanzitutto: la lenza si usa nell’acqua, mica nella sabbia o nel suolo; è superfluo poi specificare che chi pesca è un pescatore. In quanto a “d’agonia”, riferito a “spasimo guizzante”, si trattava di un pleonasmo, quindi inutile.

Ho corretto e riscritto:

Spensierato
slancia la lenza
spasimo guizzante

La scena è più icasticà, nulla da togliere o d’aggiungere. E a proposito di sinteticità e sobrietà, tenendo sempre presente il concetto di Poe, vorrei in questa sede riportare alcune traduzioni di uno dei più noti haiku. di Matsuo Basho; vissuto nel secolo XVII, secondo la datazione del calendario giuliano.

Credo sia doveroso premettere che lo haiku è una delle tipiche forme della poesia giapponese: tre versi di diciassette sillabe, secondo lo schema di cinque sillabe per il primo verso, sette per il secondo, cinque per il terzo.

Questo è il testo originale:
Furu ike ya
kawazu tobikomu
mizu no oto

Una traduzione è stata resa in. questo modo:

Nell’antico specchio d’acque morte
s’immerge una rana
il suono dell’acqua

Un‘altra:

Un antico stagno
vi salta una rana
il suono d’acqua

Un’altra ancora:

Vecchio stagno,
salto e tonfo
una rana

Quale delle tre è la più efficace? Senza dubbio, la terza. Anche perché l’agilità del quaternario rende viva e dinamica l’immagine. Se consideriamo la prima, vediamo come il verso iniziale sia stato abbondantemente diluito e intriso di solennità nella severa cadenza del decasillabo, tale da richiamare alla mente immagini cupe di certa poesia preromantica inglese, in contrasto con la serena visione del maestro nipponico.

Trovo infelice la scelta del verbo “immergere”, poiché suggerisce l’idea di un movimento lento, meditato, guardingo, e non già lo scatto repentino di un attimo dell’anfibio che si tuffa. Ho voluto offrire queste mie riflessioni alla vostra attenzione e considerazione perché convinto che chi voglia dedicarsi alla poesia

— da poeta, non da lettore o critico — debba tener presente le difficoltà e i rischi cui va incontro senza l’ausilio di una salda preparazione.

È stato detto: poeta nascitur, orator fit. Dissentisco assolutamente, perché per essere poeta od oratore occorre, sì, quella predisposizione che inclini all’una o all’altra attività; ma è. necessario, del. tutto indispensabile, uno studio costante, impegnato, senza il quale l’attività letteraria diviene giuoco effimero. Una perdita di tempo.

Benedetto Macaronio

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