Animale-Uomo

Animale-Uomo

Trattando tale argomento è necessario esporre una considerazione, sulla quale sarebbe opportuno soffermarsi: il concetto di Uomo, il concetto di Animale; considerando i due termini (Uomo e Animale) nella loro accezione semantica. Una persona, evidentemente dotata di molto acume, liquidò la questione asserendo, sic et simpliciter, che: l’uomo è uomo; gli animali, sono animali. Una intelligentissima tautologia che non chiarisce proprio nulla.
Di solito ad “Uomo” viene riservato un significato nobile; mentre, nel linguaggio comune, al termine “Animale” si attribuisce un significato spregiativo. Secondo il mito ebraico, un mito come tanti altri senza alcun fondamento scientifico, l’Uomo (il cosiddetto Homo Sapiens) sarebbe una creatura privilegiata, come recita la Torah: “E Dio disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza…”” (Gen. I, 26).

In realtà, che cosa significa uomo? Che cosa vuol dire animale?

Poiché le parole sono veicoli dei concetti, è ragionevole che occorra chiarire il significato dei termini che usiamo per renderne palese l’espressione.

E allora, analizziamo i due vocaboli da un punto di vista semantico:

ANIMALE = stando all’etimo, tale voce deriva dal greco “ánemos”, vento, poiché, secondo taluni filosofi, per esempio gli Stoici, gli esseri viventi sono mossi, animati, quindi resi viventi, da una sorta di vento. Da ciò la parola latina “anima”, donde tutti gli altri derivati, compreso l’aggettivo “animalis”, col significato di vivente. Animale, dunque, è qualsiasi essere che vive, possedendo l’alito vitale. Secondo quanto è scritto nella Bibbia, facendo riferimento sempre al mito ebraico, “… allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente” (Gen. 2, 7).

Tralasciando tutti i concetti filosofici connessi all’idea di anima, poiché il discorso sarebbe troppo lungo, ed esulerebbe da questa trattazione, esaminiamo l’altro termine:

UOMO = dal latino “homo”, in relazione con humus, terra. Viene usato per indicare quel mammifero ascritto all’ordine dei Primati e appartenente al genere Homo (Homo Sapiens Sapiens, secondo l’enunciazione di Carl von Linné). Il termine latino corrisponde alla voce ebraica “adam”, proveniente dal vocabolo adamah (terra, o argilla).

Ma i viventi, piante comprese non provengono dal suolo? Non hanno origine in quel fango primordiale dove s’aggregarono molecole che diedero inizio alle prime cellule dalle quali ebbero origine tutte le possibili forme di vita terrestre? E quand’anche la Vita fosse stata portata sulla Terra da spore provenienti dagli spazi interplanetari, come alcuni scienziati suppongono, non si è inizialmente sviluppata nell’humus?

Tenendo presente questa considerazione, sembra logico che ogni essere vivente possa, a buon diritto, essere definito Homo. Definizione, però, che orgogliosamente l’Homo Sapiens (o sedicente tale) riserva a sé stesso.

Si fa una distinzione, di natura “spirituale”, tra l’Uomo e tutte le altre specie: l’Homo Sapiens sarebbe un essere privilegiato, in quanto dotato di caratteristiche che lo rendono affatto diverso, quindi superiore: bipede, eretto, fornito di pollice opponibile, con la possibilità di un linguaggio articolato. L’Uomo, dunque, non soltanto può accogliere nella propria mente a sé stesso elementi e dati che gli permettono di rappresentare il mondo in cui vive e che lo circonda, ma di formare strutture nuove; di inventare e programmare ciò che non esiste ancora, e che costituisce il percorso della sua storia.

Il possesso della ragione sembra essere l’elemento più caratterizzante dell’Uomo, e su di esso si fondano le definizioni tentate in vari tempi. Molte dottrine attribuiscono ad un elemento divino o metafisico questa prerogativa.

Questa opinione rispecchia il concetto che il sedicente Homo Sapiens ha di sé.

Ma le cose stanno veramente così?

È un luogo comune, ed ampiamente diffuso, ammettere che l’Uomo sia dotato di ragione, mentre l’animale si comporti secondo l’istinto. In altre parole: l’Uomo è un essere intelligente; l’animale (il non-uomo, dunque) non lo è.

Ma risulta ammissibile questo asserto?

Che cos’è la ragione? E che cosa l’istinto?

La prima è la facoltà di pensare, elaborare concetti, avere la rappresentazione del mondo, formare strutture nuove, inventare e programmare ciò che ancora non è, etc. L’istinto viene definito come “un movente congenito, immutabile, che induce a compiere azioni utili alla vita di un essere, caratteristico di una data specie”.

Orbene, l’intelligenza, la ratio che distinguerebbe la specie “umana” da tutte le altre, non sono il prodotto di fattori istintivi dovuti ad una particolare struttura della massa cerebrale? Non si può certamente ammettere che le facoltà psichiche siano un alcun che di acquisito.

Ma questo, si potrebbe obiettare, non cambia nulla: i membri delle altre specie non sono in condizione di agire come L’Homo Sapiens; il quale, per virtù delle proprie facoltà intellettuali, può quel che non possono gli altri animali. Esso, a differenza dei membri delle altre specie, è faber historiæ ed in grado di trasformare l’habitat in cui vive; ciò basta per farlo sentire in una condizione di supremazia nei riguardi di ogni vivente che non appartenga alla sua specie.

È vero che l’Uomo ha la capacità di interrogarsi, e su sé stesso e sul mondo che lo circonda; di indagare la propria natura e l’Universo in cui vive e del quale è parte; di porsi domande e problemi di carattere astratto. Ma è sufficiente tale predisposizione per una presunta preminenza nei confronti di quei viventi che, orgogliosamente e sprezzantemente, reputa esseri inferiori? E in che cosa consisterebbe la sua supposta superiorità?

Stando quei religionisti che basano le loro idee sulla Bibbia, la risposta sarebbe scontata: l’Uomo è stato creato ad immagine e somiglianza del suo creatore.

Che lo provino, e con argomenti scientifici e inconfutabili. Soltanto in tal caso potremmo accettare senza obiezione.

All’opposto, rammento una considerazione che nel Faust (Prologo in Cielo) Goethe pone in bocca a Mefistofele:

“Il piccolo dio del mondo è sempre tale e quale e sempre strambo come al primo giorno. Vivrebbe un po’ meglio se tu non gli avessi dato una parvenza di luce del Cielo. La chiama ragione e se ne serve per essere più bestiale di ogni altra bestia.”

Che l’Uomo, per via della ratio, si distingua da tutte le altre specie non è certo una prerogativa sua unica, in quanto ciascuna specie possiede caratteristiche proprie che la rendono affatto dissimile dalle altre. L’Uomo è ens rationabilis, si dirà. Ma è proprio così?

Gli animali non appartenenti alla specie dell’Homo Sapiens, ciascuno secondo la propria natura e indole, compiono gli stessi atti, essendo privi d’intelletto e quindi non possedendo facoltà creative. Questo di solito si afferma, secondo un’errata e generale opinione. Ma molte specie sono in grado di reagire e adattarsi a situazioni nuove, in una sorta di autocreatività, e apprendere e sopravvivere, come hanno dimostrato le ricerche nel campo dell’etologia. Agiscono secondo istinto? Ma certamente: anche le piante lo fanno, poiché l’istinto è una qualità peculiare a tutti i viventi. L’Uomo (“how noble in reason! how infinite in faculty”, come lo definisce Hamlet, non senza una punta d’ironia, mi sembra), però agisce riflettendo, programmando, organizzando. Ma molti altri animali non fanno altrettanto? E questa intelligenza, per la quale l’Homo Sapiens si crede superiore alle altre creature della terra, non è anch’essa un istinto ? Nondimeno questa immagine e somiglianza di dio, come ama definirsi, “the beauty of the world, the paragon of animals!” agisce secondo ragione. Sarà poi vero?

Consideriamo un po’ usi e costumi e tradizioni, dell’homo rationabilis (o dovremmo dir meglio Anthropotherium Insipiens?) croce e delizia dell’umanità: non hanno principio razionale, nessun giovamento, nessuna giustificazione logica; eppure vengono coltivati dissennatamente, senza alcuna fondata motivazione, in modo del tutto acritico. Non hanno alcuna necessità d’essere, nessuna efficacia; eppure vengono ottusamente accettati.

Quando due membri della nostra malnata specie decidono di accoppiarsi, si sentono in dovere di sottoporsi a usanze e rituali che offendono e umiliano la ragione e il buon senso. Quale motivo logico hanno quelle consuetudini balorde, osservate scrupolosamente, quali l’abito bianco e il velo e lo scambio degli anelli e il viaggio di nozze, che s’accompagnano all’accordo tra una femmina e un maschio per vivere insieme? Forse garantiscono l’unione serena e duratura della coppia? I fatti ci insegnano di no. Eppure si fanno, e guai a non volerle onorare. Rifiutarle sarebbe una vergogna, per i benpensanti. E quante altre usanze si tramandano di generazione in generazione, stoltamente e ciecamente, senza che nessuno rifletta se abbiano un fondamento logico oppure no. Ha un senso festeggiare l’anno nuovo? Lo scambio degli auguri ha validità? Determina effetti apotropaici?

L’esperienza, questa grande maestra, ci insegna che le vicende si ripetono, nonostante l’avvicendarsi degli anni, e la vita è travagliata da sciagure, sventure, sofferenze di ogni genere, disastri e quanto altro serve a rendere beata la nostra esistenza. Ma, nonostante l’evidenza della inutilità, l’Uomo continua a rispettare le tradizioni.

Molte, moltissime usanze hanno origine in convincimenti arcaici, generati da errori e credenze irrazionali, che, sia pur mascherate, si perpetuano sino al tempo presente. E tutto questo a dispetto dei progressi scientifici e lo sviluppo del pensiero filosofico. L’Illuminismo, il pensiero di Feuerbach e di Marx e di altri ancora non hanno intaccato per nulla la coscienza dell’Umanità, se non in settori limitati. La maggioranza degli uomini vive in una sorta di cecità intellettuale, dimostrando di essere morbosamente, patologicamente legata ad una concezione che sa di magismo, ad una matrice di carattere magico religioso, per cui sopravvivono usi e superstizioni di età arcaiche. Un medico, a proposito di questo argomento, ebbe ad affermare che la società è schizofrenica.

Se si sostiene che gli altri animali non siano in grado di progredire, non evolvendosi lungo le linee del futuro, occorre onestamente riconoscere che, in molti casi, neanche l’Uomo si è mentalmente evoluto. Sotto certi aspetti, l’evoluto Homo Sapiens reagisce a riflessi condizionati, proprio come i cani, oggetto di esperimenti del medico e fisiologo Ivan Petrovic Pavlov. Si tratta di qualcosa di meccanicistico che esclude totalmente l’uso del criterio e dell’esercizio della logica. Il che rammenta un aforisma di Oscar Wilde: “L’uomo ha molte qualità, ma la ragione non è una di queste.” Dove starebbe, allora, la differenza fra i primitivi del passato e gli evoluti del tempo odierno? Io non ne vedo alcuna.

E andiamo ad un diverso argomento: il rapporto tra L’Uomo e le altre specie.

Nella Torah, uno dei tanti testi sacri diffusi nel mondo, è scritto: “E dio disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra”” (Gen. 1, 26).

Ecco, il concetto del dominio sugli animali è esplicitamente espresso nella Torah o Pentateuco, una raccolta di miti del Medio Oriente. Esso riflette l’orgoglioso atteggiamento dell’Uomo nei confronti di tutti gli altri viventi: “Io sono il padrone del mondo; voi, i miei sottoposti!”. Ma cosa ne sarebbe stato di questo animale (l’Uomo) se la specie dei dinosauri non si fosse estinta? Quali sarebbero state le vicende di questo piccolo mammifero bipede presuntuoso se, come si ipotizza, un asteroide non si fosse abbattuto sul pianeta Terra contribuendo all’estinzione dei giganteschi rettili? I religionisti, almeno quelli delle fedi di origine semitica, favoleggiano di una presunta “provvidenza divina” che avrebbe favorito l’umanità. Le cose, in realtà, stanno ben diversamente. Se è un principio scientifico che la fine dei dinosauri sia stata causata dalla caduta di un grande asteroide il quale sconvolse il clima terrestre, occorre ammettere che lo sviluppo dell’Uomo sia il prodotto di un fattore stocastico. Infatti: se quel corpo celeste fosse passato senza penetrare nell’orbita terrestre, lo sviluppo della vita si sarebbe svolto in altro modo.

E cosa ne sarebbe stato dello sviluppo e della grandezza dell’Homo Sapiens?

L’Uomo, dunque, si considera il padrone del mondo; pertanto il suo rapporto con gli altri animali (le bestie, sprezzantemente li definisce) è di incondizionata sovranità. Nella maggior parte dei casi, il suo interesse verso di loro, oltre quello scientifico, è dovuto a motivi egocentrici, per soddisfare il proprio utile.

In uno dei quattro Vangeli si trova una metafora attribuita a Gesù di Nazareth nella quale questo personaggio si paragona ad un “buon pastore”. Leggiamo, infatti: “Io sono il buon pastore. Il buon pastore offre la vita per le pecore. Il mercenario invece, che non è pastore, e al quale le pecore non appartengono, vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge e il lupo le rapisce e le disperde; egli è un mercenario e non gli importa delle pecore” (Gv. 10: 11-13). Altrove è scritto: “Se un uomo ha cento pecore e ne smarrisce una, non lascerà forse le novantanove sui monti, per andare in cerca di quella perduta? Se gli riesce di trovarla, in verità vi dico, si rallegrerà per quella più che per le novantanove che non si erano smarrite” (Matt. 18: 12-13).

Queste parabolette, donde l’espressione “pecorella smarrita”, sono ben note in tutto il mondo cristiano, e dovrebbero essere una testimonianza di amore. Ma le cose stanno veramente così? Per quale motivo il buon pastore si interessa tanto al proprio gregge? Perché lo ama di un amore paterno in ciascuno dei suoi componenti? Oppure, ecco la verità, perché da esso ne trae un profitto, modesto o considerevole che sia? Il buon senso, confortato dall’esperienza, ci induce a propendere per quest’ultimo motivo. L’unico vero motivo della sollecitudine che il pastore nutre per le pecore. L’allevamento degli ovini rende, e rende anche bene: si può ricavarne il latte, la lana, la carne. Le pecore, in conclusione sono un buon cespite; come, del resto, tutti gli altri animali, pesci compresi, dai quali si può trarre un bel tornaconto.

In talune religioni l’Animale è oggetto di grande considerazione. In Religionsboka (“Il libro delle religioni”) il norvegese Jostein Gaarder, trattando l’Induismo, scrive:

“In India la vacca è un animale sacro, adorato in occasione di alcune feste religiose. Il rito è con tutta probabilità legato ad un antico culto della fertilità, e nei testi dei Veda vi sono inni dedicati a questo animale perché esso dà all’uomo tutto ciò di cui ha bisogno per vivere. La vacca è divenuta un simbolo di vita e non si può uccidere. La società occidentale condanna spesso un simile atteggiamento sostenendo che bisognerebbe piuttosto macellare il bestiame per nutrire le folle degli affamati che popolano l’India. Ma se esaminiamo più da vicino il ruolo che la vacca svolge nell’agricoltura del Paese, troviamo anche molti aspetti positivi. Il 70 per cento della popolazione vive dei prodotti della terra e c’è una grande carenza di bestie da soma e da traino in quanto ben pochi possiedono attrezzi agricoli e trattori. Inoltre lo sterco di vacca serve non soltanto come fertilizzante, ma anche come combustibile.

Per quanto riguarda gli aspetti del culto, la vacca è più pura del bramino. Toccare uno di questi animali, quindi, costituisce un rito purificatore. E tutti i prodotti della vacca, latte, burro, e persino lo sterco e l’urina, si usano in una serie di cerimonie di purificazione.

Per gli indù, oltre alla vacca, altri animali sono sacri: In primo luogo la scimmia, il coccodrillo e il serpente. Inoltre la religione condanna l’uccisione degli animali e ciò ha favorito l’affermarsi delle diete vegetali presso molti indù e ha gettato le premesse della non-violenza, noto in Occidente soprattutto grazie a Gandhi e alla sua battaglia per l’affrancamento dal colonialismo inglese”.

Riflettiamo un po’: perché in alcune civiltà vi è il culto degli animali, per cui essi vengono considerati sacri e ricevono onori ed offerte? Per lo stesso motivo che spinge l’Uomo a rivolgersi alle sue presunte divinità, affinché gli elargiscano benefizi e favori. Anche in questo caso il rispetto per gli individui delle altre specie non è disinteressato come potrebbe sembrare. Rispettando gli altri animali, l’Homo Sapiens ha riguardo soltanto per i propri interessi, reali o immaginari che siano. Riverisce la vacca, come avviene tra gli Indù, per il giovamento che può trarne; rispetta tutti gli altri viventi, insetti compresi, perché convinto che in essi possano rinascere le anime umane, a secondo del karman di ciascun uomo, come ammettono le credenze indiane e, in generale, le varie concezioni della metempsicosi. Da questo punto di vista l’Uomo vede nell’animale, il diverso da sé, un vivente nel quale si può reincarnare; il rispetto quindi che ne prova è, in realtà, diretto verso sé stesso.

Che vi sia un disprezzo nei confronti delle altre specie lo provano i tanti modi di dire che correntemente si usano. Dare del verme, del porco, dello sciacallo, del somaro ad una persona è una forma di disprezzo ingiustificabile e ingiustissima che vitupera non la nostra ma la dignità di quegli animali sui quali scarichiamo le miserie morali del nostro essere. Che cosa ha mai il maiale di così spregevole da essere assurto a simbolo di “persona di costumi immondi”, come riporta il Vocabolario della Lingua Italiana dello Zingarelli? Solo perché si rotola nel fango? Ma L’Uomo non s’avvoltola nelle sue proprie nefandezze? E allora, qual dei due è il peggiore? Il maiale è un animale assolutamente inoffensivo, vittima, tutt’al più, della voracità dell’Uomo. L’appellativo di squalo dato ai profittatori è immeritato, in quanto lo squalo è un pesce che lotta per la propria sopravvivenza, mentre il profittatore sfrutta il prossimo e senza alcuna esitazione di carattere morale. Il pescecane è diventato simbolo di sfruttamento e di ferocia, ma che dire di quegli uomini che nelle praterie degli Stati Uniti sterminarono migliaia e migliaia di bisonti?

E vi sarebbero tanti altri esempi da addurre, che dimostrano l’indegno disprezzo verso gli animali, incominciando dalla favolistica greca.

E, a proposito di somaro, nel senso di incolto, testone, stupido, mi è gradito riportare una notizia, accogliendola sia pure col beneficio del dubbio, letta in un periodico, “La Settimana Enigmistica” del 27 Dicembre 2003.
In spagnolo, la parola “burro”, che significa “asino”, viene usata anche per insolentire una persona. Ora, però, gli esponenti dell’Associazione per la Tutela dell’Asino, i quali giudicano tale accostamento “offensivo per questo animale di nobile carattere”, si sono appellati alla Reale Accademia della Lingua, chiedendo che, nel senso appunto di “uomo ignorante, stupido”, venga introdotto nel dizionario il nuovo termine “vurro”, in modo da non intaccare più la fama degli asini a quattro zampe

Oggi si parla tanto di “crimini contro l’umanità”. Ma quale tribunale giudicherà le nefandezze dell’Uomo nei confronti degli altri viventi?

Però degni di biasimo si debbono anche giudicare, e lo sono, coloro che dicono di amare gli animali e li trattano alla stregua di gingilli. Pensiamo un po’ a quelle persone che tengono cani di razza per proprio trastullo e diletto; a quelle signore snob che agghindano i cagnolini in modo eccentrico sì da renderli ridicoli. E quelli che fanno partecipare gatti e cani a “concorsi di bellezza” con tanto di coppe e medaglie? È anche questo amore? O non piuttosto una forma di esibizionismo in cui trionfa la tutta la vanità e la demenza della bestia Uomo? Propenderemo per il secondo caso.

Da diversi decennii, ormai, l’ecologia fa parte della consuetudine di questa società; e il termine “ecologico” viene servito in tutti i modi e in tutte le salse: una moda come un’altra. Ogni secolo, ogni periodo storico ha le sue mode e i suoi feticismi. Nel nostro tempo si fa un gran parlare della “tutela dell’ambiente”, la salvaguardia della Natura. È ovvio che questo principio implichi la protezione delle altre specie, soprattutto quelle a rischio d’estinzione. Pertanto si sostengono campagne pubblicitarie per rendere sensibile la maggior parte delle persone nei riguardi del nostro habitat e di tutte le specie che ci vivono. Quale il motivo di sì profondo sollecitudine? È sempre un obiettivo antropocentrico: l’Uomo, nel “proprio particulare”,per dirla con Francesco Guicciardini, si sente in dovere di salvaguardare l’ambiente con l’unico scopo di proteggere sé stesso. Come dire: Cicero pro domo sua.

Si attuerebbe lo scopo di questa breve e modesta esposizione se, tramite essa, qualcuno riuscisse ad ammettere una triste verità: la difesa degli altri animali è sempre in vista degli egocentrici interessi dell’Homo Sapiens.

E per concludere, un’ultima riflessione. Altra mostruosa discriminazione tra l’Uomo e l’Animale consiste che la vita dell’Uomo è sacra (quanto a dire: inviolabile); tale è il motivo delle crociate contro la pena di morte e l’aborto, considerato quest’ultimo alla stregua di un atto immorale. Il capo della Chiesa Cattolica blatera contro di esso in maniera ossessionante e addirittura pretende l’incremento delle nascite. Cosa quanto mai stolta, in quanto all’incremento della popolazione corrisponde in ordine progressivo la diminuzione delle risorse ed il restringimento delle aree abitabili, per cui si rende indispensabile l’espansione delle città con detrimento degli spazi agresti.

Ma cosa dire, a proposito della sacralità della vita, per quel che riguarda gli Animali e lo sport della caccia? È sacra soltanto la vita dell’Homo Sapiens? E tutti gli altri animali?

Si uccide per piacere, per passatempo, per una sorta di passione, per esibire la propria abilità. In ogni caso è sempre lo sfogo di un’indole perversa. Si spara con la stessa disinvoltura di chi si dedichi all’innocuo biliardo oppure al golf. Chi pensa alle sofferenze che s’infliggono ai volatili ed alla “selvaggina”?

Benedetto Macaronio

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